Il disastro del Corman Drosten mette la parola fine alla pantomima del Covid 19
Il 4 settembre 2020 mentre visitava il cantiere della nuova stazione ferroviaria di interscambio HS2 a Solihull, vicino Birmingham, Boris Johnson ha dichiarato che i test del covid 19 producevano il 93% di falsi positivi.
Il 23 settembre 2020 la stessa dichiarazione è stata fatta da Dominic Raab ministro degli esteri britannico negli studi di SKY News a Londra.
Sul momento, oltre allo stupore per una simile dichiarazione, che di fatto smontava l’affidabilità dei test diagnostici del Covid 19, non riuscivo a capire per quale motivo i due principali esponenti del governo britannico avessero dichiarato pubblicamente che il sistema diagnostico del Covid 19 era inaffidabile, né perché i media di tutto il mondo non avessero dato alcun tipo di seguito a tali eclatanti dichiarazioni.
Il mio stato di incomprensione è durato fino a venerdì 4 dicembre, quando la rivista medico scientifica Eurosurveillance ha pubblicato questa nota con la quale annunciava di avere iniziato un’indagine per revisionare la scientificità dello studio Corman-Drosten, pubblicato sempre da Eurosurveillance il 23 gennaio 2020, dal titolo “Detection of 2019 novel coronavirus (2019-nCoV) by real-time PCR di Christian Drosten e Victor Corman.
Perché questa pubblicazione è così importante?
Christian Drosten e Victor Corman sono i due medici autori del test diagnostico del Covid 19 che è utilizzato nella maggior parte dei laboratori di analisi pubblici e privati in Europa e in USA.
Il test Corman-Drosten è lo studio teorico su cui si basa la metodologia diagnostica ufficiale del Covid 19. Si tratta della diagnostica su cui si basano tutti i dati ufficiali diffusi dai governi e dai media di tutto il mondo sulla diffusione del Covid 19 e di conseguenza è anche la base scientifico-giuridica dei lockdown e delle restrizioni alle nostre libertà fondamentali.
Questa è una storia straordinaria e per capirla bisogna cominciare dall’inizio:
Eurosurveillance è una rivista medico-scientifica che si occupa di epidemiologia, prevenzione e controllo di malattie trasmissibili. La pubblicazione è a cura dell’ European Centre for Disease Prevention and Control che è un agenzia indipendente dell’Unione Europea, la cui missione è rinforzare le difese europee contro le malattie infettive.
Normalmente qualsiasi studio scientifico, al fine di essere pubblicato deve essere “peer-reviewed“ cioè deve essere esaminato dai membri del comitato scientifico della rivista e questo processo di verifica di solito richiede diversi mesi di lavoro, soprattutto se si tratta di metodologia diagnostica, perché i procedimenti devono poter essere replicati e validati in laboratorio.
A maggior ragione se si tratta di uno studio sul quale si baserà il test per un virus che ha colpito la popolazione dell’intero pianeta.
Lo studio Corman-Drosten è stato inviato dagli autori a Eurosurveillance il 21 gennaio 2020 quindi è stato approvato per la pubblicazione il 22 gennaio e poi pubblicato il 23 gennaio 2020. In pratica dal suo invio alla sua pubblicazione sono passate 48 ore.
Non solo. Lo studio Corman-Drosten è stato immediatamente accettato come test standard internazionale dall’OMS, che ha iniziato a produrre e inviare il kit diagnostico alle regioni colpite dal virus.
Nei mesi seguenti, tra lockdown, collasso economico, chiusura di scuole e panico diffuso, pochi erano consapevoli delle lacune sostanziali presenti nello studio alla base della diagnostica del Covid-19 e la situazione di emergenza ha prevalso sull’accuratezza normalmente richiesta ad una metodologia diagnostica, specialmente per un evento epidemico di rilevanza globale.
In questa situazione di caos, la svolta è avvenuta il 30 novembre 2020 quando lo studio Corman-Drosten è stato messo in discussione dall’ ICSLS (International Consortium of Scientists in Life Sciences) un team di 22 scienziati provenienti da Europa, USA e Giappone che hanno inviato questa lettera ad Eurosurveillance chiedendo l’immediato ritiro della pubblicazione.
La lettera contiene un contro-esame dello studio che mette in evidenza 10 errori cruciali della metodologia diagnostica Corman-Drosten.
Il capo progetto dello studio che smonta il Corman-Drosten è Pieter Borger, un esperto di biologia molecolare, mentre tra i 22 autori c’è anche Michael Yeadon, ex Vice Presidente di Pfizer, che si è sempre detto contrario ai protocolli OMS: dal lockdown globale all’uso delle mascherine, fino alla chiusura delle scuole.
In una intervista su youtube ora rimossa Michael Yeadon afferma che la totalità dei risultati prodotti dal test Corman-Drosten è falsa.
Celia Farber, è una giornalista americana, nota per le sue inchieste sull’HIV ha parlato con il Dr. Kevin Corbett, uno dei 22 autori dello studio che smonta il Corman Drosten:
“Quando Christian Drosten ha sviluppato il test, la Cina non gli aveva dato il virus isolato, lui e Corman hanno sviluppato il test da una sequenza genetica trovata in una banca dati. I cinesi hanno dato a Drosten una sequenza genetica ma senza un virus isolato corrispondente. In pratica avevano un codice ma nessun corpo da associare al codice. Nessuna morfologia virale“.
Che cosa significa Morfologia Virale?
“E’ come se al mercato del pesce” ha risposto Corbett “ti danno dei frammenti di lisca e ti dicono questo è il tuo pesce”. Potrebbe essere qualunque pesce. Non hai nemmeno una lisca ma appena alcuni frammenti di lisca. Quello è il tuo pesce“. Corbett ha poi aggiunto “Nel Corman-Drosten non c’è niente che provenga da un vero paziente. Viene tutto da una banca dati genetica e i frammenti della sequenza del virus che mancavano sono stati ricreati artificialmente. Li hanno ricreati sinteticamente per riempire le caselle vuote. Questa è la genetica: è un codice. Quindi mettiamo che tu hai “ABBBCCDDD” e ti mancano alcuni frammenti che tu pensi sia EEE quindi li inserisci nella sequenza utilizzando un software. E’ tutto sintetico. I frammenti mancanti vengono ricreati al computer. Questo è il risultato finale della geneticizzazione della virologia. In pratica è un virus informatico.”
Ma quali sono le implicazioni di questa incompletezza del primer riguardo l’affidabilità del test del Covid 19?
Le implicazioni sono intuibili anche da chi non è un esperto di virologia. In pratica essendo il virus iniziale incompleto, cioè composto solo da frammenti, il settaggio della macchina che effettua il test RT-PCR non potrà andare oltre la rilevazione di quei frammenti che costituiscono il primer. Cioè la macchina non può inventarsi una struttura biologica che non ha, il che significa che la macchina del PCR segnalerà come positivo anche un campione che invece di possedere l’intero filamento dell’RNA possegga soltanto un frammento dell’acido nucleico in questione.
La conclusione dell’ICSLS è che il test Corman-Drosten non è stato strutturato per rilevare il virus completo ma soltanto un frammento del virus, cioè quello che avevano a disposizione. Il che significa anche come vedremo più avanti in questo articolo, che la macchina non riesce a distinguere tra un frammento di RNA e il virus intero. Questo fatto classifica il test come inadeguato come test diagnostico per le infezioni dei virus SARS.
In un’intervista postata sul suo account Twitter il Dr. Pieter Borger ha detto: “il virus non era ancora in Europa e lo studio della diagnostica del Covid era già stato completato”, Borger ha poi aggiunto: “se vai da uno sfasciacarrozze e trovi una ruota o un cerchione di una Mercedes e un volante di una mercedes puoi affermare secondo te che ti trovi in un’officina Mercedes?
No, non puoi. Perché quelli che hai in mano sono soltanto alcuni pezzi di una Mercedes. Potresti trovare questi pezzi di ricambio ovunque, in qualunque sfasciacarrozze.” Borger descrive il test RT-PCR come: “un test che non ha nessuna rilevanza a livello diagnostico”.
Che cos’è il test RT-PCR?
Il test RT-PCR Reverse Transcriptions – Polymerase Chain Reaction (Reazione a catena della polimerasi con trascrittasi inversa) è una tecnica di biologia molecolare che consente la moltiplicazione (amplificazione) di frammenti di acidi nucleici. Gli acidi nucleici sono le macromolecole deputate alla conservazione e al trasporto dell’informazione genetica. In pratica gli acidi nucleici sono l’RNA e il DNA.
La polimerasi è il processo di amplificazione del DNA e utilizza il filamento di RNA del virus come “stampo” di partenza per rintracciare tutte le parti del virus mancanti, in modo da comporre l’intero codice genetico del virus.
Questa tecnica, per essere efficace ai fini della rilevazione del virus, richiede un frammento di DNA o di RNA come “primer” per poter iniziare la reazione di polimerizzazione. Nella duplicazione del DNA, il primer è un breve filamento singolo di RNA che funge da innesco per avviare la duplicazione. Infatti è conosciuto anche come “filamento di avvio della duplicazione” ed è complementare al filamento stampo del DNA.
Lo studio realizzato da Pieter Borger e dagli altri 21 scienziati che smantella il Corman-Drosten è strutturato in 10 punti cruciali o meglio “fatali”.
Il Primo errore: Drosten ha sviluppato la metodologia diagnostica senza avere il virus a disposizione.
Al primo punto che è anche quello principale, Borger e soci contestano a Corman e Drosten di non avere utilizzato il virus SARS-Cov-2 come primer per il loro test ma di avere usato solo dei frammenti e di avere completato la sequenza artificialmente o “in silico“. La definizione “in silico” significa che la riproduzione non è biologica ma informatica, perché il silicio è la sostanza di cui sono fatti i componenti elettronici dei computer.
La giustificazione addotta da Corman e Drosten riguardo il fatto di non avere a disposizione il virus isolato del SARS-CoV-2 è che il nuovo virus (il Covid 19) fosse secondo loro molto simile al SARS-CoV del 2003 (scoperto dallo stesso Drosten nel 2003). Quindi in pratica Drosten per l’elaborazione del Gold Standard (cioè del virus di riferimento per costruire il test diagnostico), pensava di poter andare “a rimorchio” di un altro coronavirus, simile al Covid 19, da lui scoperto nel 2003 e di completare il resto della sequenza al computer: “L’adozione e la validazione del sistema diagnostico per il covid 19 sono state strutturate in assenza di un virus isolato o di un campione originale del virus preso da un paziente. La struttura e la validazione del metodo diagnostico sono state possibili grazie alla relazione genetica simile al SARS-Cov del 2003 e aiutate dall’uso di acido nucleico sintetico.” Victor Corman co-autore del Corman-Drosten ha aggiunto: “Volevamo sviluppare e mettere in campo una metodologia diagnostica robusta da usare nell’ambito dei laboratori di sanità pubblica ma non avevamo il virus a nostra disposizione“.
Secondo il Dr. Pieter Borger, promotore della richiesta di ritiro del Corman-Drosten: “Senza avere il virus disponibile, gli obiettivi dichiarati da Corman non sono raggiungibili perché la carica virale è un informazione cruciale per raggiungere questi obiettivi. “L‘obiettivo dello studio Corman Drosten era quello di sviluppare uno strumento diagnostico in grado di rilevare la presenza del Coronavirus SARS-CoV-2. Ma come è possibile raggiungere tale obiettivo se non hai il Gold Standard? Cioè il virus?
Che cos’è il Gold Standard
In medicina, il Gold Standard è il parametro di riferimento necessario per effettuare un test diagnostico. L’attendibilità di un test diagnostico viene valutata da quanto accuratamente il test è in grado di identificare se un soggetto è sano oppure se è malato. Perciò il Gold Standard altro non è che la malattia stessa. Nel caso del Covid 19, il Gold Standard è il virus SARS-CoV-2.
A volte può capitare, come nel caso del Corman-Drosten, che il Gold Standard, cioè la malattia, in questo caso il virus del Covid 19, non sia disponibile. Perciò sono necessari dei metodi alternativi per reperirlo.
Perciò l’obiezione di Pieter Borger è più che comprensibile: Drosten voleva creare un test in grado di rilevare il Covid 19 ma come poteva Drosten realizzare un test diagnostico attendibile del Covid senza avere il virus ma soltanto la sua sequenza genomica?
Ve lo ripeto ancora una volta: Quando Drosten ha sviluppato il gold standard del test del covid non aveva la morfologia virale del virus perché i cinesi non gli hanno mai dato il virus isolato ma soltanto una parte della sequenza genomica e non era nemmeno biologica ma informatica, perché aveva solo lo schema della sequenza in formato digitale. Esaminando la struttura della sequenza Drosten si è reso conto che la struttura base della sequenza era quella di un normale coronavirus, che assomigliava molto a un ceppo SARS da lui stesso scoperto nel 2003. Quindi ha preso la sequenza genomica di questo ceppo SARS da lui stesso scoperto 18 anni prima e seguendo lo schema datogli dai cinesi ha aggiunto la parte mancante “in silico” cioè al computer. E questo lo sappiamo come potete verificare voi stessi perché è scritto sulla cover del Corman Drosten, consultabile a questo indirizzo web la cui cover è riportata nell’immagine sottostante:
Questo significa che non c’è nessun nuovo virus in circolazione ma solo una specie di Frankenstein bio-informatico che ha come base un ceppo SARS che circola da più di 18 anni. Perché è il gold standard del test del Covid 19 che determina chi è positivo al virus e che ci dice che cos’è questo virus. E il virus sul quale si basa il test è un normale coronavirus in circolazione da quasi vent’anni.
Perciò quando un qualunque laboratorio analisi del pianeta, dopo avere esaminato un tampone mediante la PCR, stabilisce che questo campione è positivo, ciò significa che il soggetto esaminato è positivo al ceppo SARS del 2003, in quanto è quel ceppo che costituisce il gold standard del Covid 19. In pratica si tratta di una normale influenza alla quale è stato assegnato un nuovo nome (covid 19) integrata da un marketing senza precedenti nella storia di questa “civiltà”.
Abbiamo capito quindi che Christian Drosten per sviluppare il test del covid 19 ha utilizzato come gold standard il virus 2003 SARS CoV. Questo virus scoperto da Drosten nel 2003 è quindi secondo quanto afferma Christian Drosten nel suo studio del 2003, noto come Drosten et al, il virus che causerebbe la SARS. Drosten afferma che “il virus è stato isolato mediante la tecnica della coltura cellulare e un filamento da 300 nucleotidi è stato ottenuto mediante amplificazione con RT-PCR”. Nella sezione Risultati (Results) del suddetto studio Drosten ci dice testualmente che: “questo nuovo virus a livello di caratterizzazione genetica è molto distante dai coronavirus già conosciuti” (l’identicità è tra il 50 e il 60 percento della sequenza di nucleotidi). Il che significa che il virus in questione non è classificabile come coronavirus al 100% ma solo al 50-60%.
Nella sezione Discussione, Drosten ci dice testualmente che: “Il virus è stato rilevato in una varietà di campioni clinici da pazienti con SARS ma non negli studi di controllo (perché questi non sono stati fatti). “Bisogna considerare che in passato i virus che sono stati inizialmente isolati in pazienti con una specifica patologia si è poi scoperto in indagini successive che non esisteva alcuna associazione” (tra il virus rilevato e la malattia). “Perciò, studi più approfonditi con gruppi di controllo appropriati sono necessari al fine di verificare o eliminare la nostra IPOTESI circa la causa della SARS”.
Se andiamo a leggere le conclusioni del suddetto studio, Drosten ammette candidamente che: “Il nuovo coronavirus potrebbe avere un ruolo nel causare la SARS.” Questo significa che il 2003 SARS CoV non solo non è un coronavirus e non è nemmeno il virus che causa la SARS ma “potrebbe avere un ruolo nel causare la sindrome in questione”.
In conclusione il virus utilizzato da Christian Drosten come gold standard per il test del Covid 19 è in realtà soltanto una ipotesi di virus. E questo ce lo dice lo stesso Christian Drosten nella front cover del suo studio Identification of a Novel Coronavirus in Patients with Severe Acute Respiratory Syndrome pubblicato sul New England Journal of Medicine il 15 maggio 2003.
Più si approfondisce questa storia più si capisce che è una pantomima.
Secondo il microbiologo Olandese Pieter Borger, senza il virus reale ma soltanto con la sequenza genomica non era possibile per Drosten nemmeno procedere alla validazione del test diagnostico.
Che cos’è la Validazione?
Un test diagnostico si dice validato quando si ha la prova che il test fornisce un esito attendibile sullo stato del campione analizzato.
La validazione di un test diagnostico è quel processo di valutazione necessario e indispensabile per verificare la validità del test dal punto di vista clinico.
Di solito la validazione viene fatta su delle cavie animali ed è un processo che è parte integrante della metodologia diagnostica, perché senza la fase di Validazione la metodologia diagnostica non ha alcun valore. Ovviamente non avendo il virus a disposizione, Corman e Drosten non hanno potuto procedere all’esecuzione della Validazione, perciò il test diagnostico Corman-Drosten non solo è incompleto ma totalmente irrilevante dal punto di vista scientifico, oltre che da quello clinico, perché la metodologia non è stata integrata dalla sperimentazione animale, che è la condicio sine qua non affinché un test diagnostico si possa definire tale.
Errore numero 3: i cicli di amplificazione
Secondo la richiesta di ritiro dello studio, l’errore cruciale numero 3 del Corman Drosten è che il numero dei cicli di amplificazione dovrebbe essere meno di 35 (25-30).
Che cosa sono i cicli di amplificazione?
Nella Reazione a catena della Polimerasi, il valore Ct è il numero di cicli di amplificazione necessari per individuare il virus (e dichiarare il soggetto positivo). In pratica Ct è il valore-soglia dei cicli necessari per l’individuazione del virus (In inglese: Cycle Threshold).
Maggiore è il numero di cicli di amplificazione e più approfondito e accurato è l’esame diagnostico. Ed è proprio questo uno dei principali errori del metodo diagnostico Corman-Drosten: il fatto di avere previsto un numero di cicli troppo elevato per la rilevazione del virus. Che cosa significa questo? Significa che se i cicli di amplificazione sono troppo numerosi potrebbero rilevare addirittura un’influenza che hai avuto anni prima e quindi il problema non è più quello dei falsi positivi ma dell’inattendibilità totale del test in questione.
In caso di rilevazione del virus, se la soglia di amplificazione dei cicli è maggiore di 35, i segnali rilevati non sono associabili a un virus infettivo, come è stato determinato dagli studi sulla cultura cellulare del virus. Se qualcuno viene testato con la PCR come positivo con una soglia di 35 cicli o maggiore, (come nella maggior parte dei laboratori in Europa e USA) la probabilità che questa persona sia infetta è inferiore al 3% perciò la probabilità che suddetto risultato sia un falso positivo è del 97%.
Questa obiezione sollevata da Borger e soci si basa su uno degli studi più famosi sul SARS-CoV-2, si tratta dello studio conosciuto come Jafaar et al.
Correlation Between 3790 Quantitative Polymerase Chain Reaction–Positives Samples and Positive Cell Cultures, Including 1941 Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2 Isolates.
Quindi le obiezioni che smontano il Corman Drosten non sono una prerogativa esclusiva dell’ ICSLS e di Pieter Borger. In realtà l’iniziativa di Borger è soltanto l’ultimo di una serie di studi, in maggioranza prodotti dall’Università di Oxford che avevano già smantellato completamente il Corman Drosten da un pezzo ma senza ricevere alcuna attenzione da parte dei media. Stiamo parlando dello studio di Rita Jafaar, noto come Jafaar et al che ha dimostrato che la metodologia diagnostica del Corman Drosten produce il 97% di falsi positivi. E lo studio Jafaar et al non è proprio nuovo perché è stato pubblicato su Clincal Infectious Disease il 28 settembre 2020. Ma le dichiarazioni di Boris Johnson e di Dominic Raab sono addirittura antecedenti il Jafaar et al perché la dichiarazione di Dominic Raab è del 23 Settembre e quella di Johnson è addirittura del 4 Settembre.
Se si va a leggere Jafaar et al si scopre infatti che Jafaar cita addirittura uno studio precedente, sempre pubblicato dalla rivista Clinical Infectious Disease, (rivista di patogenesi pubblicata da Oxford University Press) l’ormai leggendario Bullard et al, il cui titolo è: Predicting Infectious Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2 From Diagnostic Samples pubblicato il 22 maggio 2020.
Rita Jafaar cita Bullard et al nella parte in cui afferma che “i pazienti risultati positivi con un esame PCR superiore ai 25 cicli di amplificazione non sono contagiosi” perché il virus non è stato rilevato nelle culture virali che superavano tale soglia.
Bullard et al ci dice testualmente già nella presentazione che il test RT-PCR “può rilevare solo ed esclusivamente l’RNA e NON il virus INFETTIVO”, quindi la sua capacità di determinare la durata dell’infettività di un paziente è limitata.
Non solo. La frase che mette la parola fine all’affidabilità del test RT PCR è questa:
There was no growth in samples with a Ct > 24 or STT > 8 days
Non c’è crescita virale nei campioni con un Ct maggiore di 24 o quando il range di tempo tra l’inizio dei sintomi e il test è superiore a otto giorni.
Probabilmente il primo ministro inglese era stato informato di questa scoperta e per questo motivo il 4 settembre 2020 ha dichiarato pubblicamente che i test producevano oltre il 90% di falsi positivi. Johnson non si è svegliato la mattina del 4 settembre e ha deciso di smantellare la credibilità dei test covid 19. È stato costretto a farlo, perché il fatto di dichiararlo pubblicamente lo avrebbe legalmente esentato da eventuali problemi legali nel momento in cui sarebbe stato scoperto quello che grazie a Bullard et al e Borger et al sappiamo oggi e cioè che il Corman Drosten è un test clinicamente inaffidabile e come vedremo adesso un disastro totale.
In verità il colpo di grazia al Corman Drosten e al test RT-PCR non è stato dato né da Bullard et al né da Jafaar et al ma da un terzo studio, sempre pubblicato dall’Università di Oxford: Viral cultures for COVID-19 infectious potential assessment – asystematic review
Lo studio in questione, noto come Jefferson et al è stato pubblicato per la prima volta il 4 agosto 2020 sul sito del Nuffield Department of Primary Care, poi il 29 settembre sulla rivista medica open source medRxiv per poi essere pubblicato da Clinical Infectious Disease il 3 Dicembre 2020.
Nonostante lo studio si chiami Jefferson et al è importante notare che uno degli autori è Carl Heneghan, direttore del Centre for Evidence-Based Medicine presso l’Università di Oxford e che guarda caso, il 5 settembre 2020, il giorno dopo che Boris Johnson rilasciava la sua dichiarazione sui falsi positivi, veniva citato e intervistato da Rachel Schraer, Health correspondant di BBC.
Il 5 settembre la BBC ha pubblicato questo articolo dal titolo “il test del covid 19 potrebbe rilevare frammenti di virus morti”. (titolo originale: Coronavirus: Tests ‘could be picking up dead virus‘)
Nel suddetto articolo, la Schraer ha intervistato Carl Heneghan che aveva pubblicato l’articolo da più di un mese.
Ma perché l’articolo di Henegan è così importante?
Perché non si tratta di un semplice articolo, né di uno studio ma si tratta di uno studio che esamina altri studi scientifici, per essere precisi Jefferson et al ha esaminato 29 studi sul SARS-Cov-2. In pratica tutta la letteratura scientifica più rilevante sul Covid 19.
L’obiettivo di Jefferson et al era quello di esaminare tutte le prove finora conosciute nella letteratura medico-scientifica esistente, relative alla cultura del SARS-CoV-2 e metterle in relazione con i risultati del test RT-PCR e con altre variabili che potevano influenzare l’interpretazione del test, come ad esempio il tempo trascorso dall’inizio dei sintomi.
I punti principali di Jefferson et al che in pratica hanno smantellato il Corman-Drosten molto prima di Pieter Borger e dell’ICSLS sono questi:
1) Secondo Jefferson et al, due studi hanno dimostrato che per ogni ciclo di amplificazione in più la possibilità di rilevare il virus vivo diminuisce del 33%.
2) Sei studi hanno dimostrato che l‘RNA del virus può essere rilevabile nel test RT-PCR per più di 14 giorni sebbene il suo potenziale infettivo declini dopo appena 8 giorni, anche nei casi di alta carica virale. Secondo lo studio Young et al (citato sempre da Jefferson et al) il virus è rilevabile dal tampone nasofaringeo dal test PCR per oltre 48 giorni dall’inizio dei sintomi.
3) Più del 90% dei virus isolati sono stati ottenuti da campioni che avevano un valore di Ct inferiore a 23
4) Ai fini della trasmissione del virus non solo è necessaria la presenza di un virus vivo e non dei frammenti rilevati dal PCR ma è necessario poter verificare che tale virus oltre ad essere vivo sia in grado di riprodursi.
Il problema del test RT-PCR è che non è in grado di distinguere i frammenti di virus dal virus vero e non è nemmeno capace di quantificare il virus dalle secrezioni di un paziente, quindi è clinicamente inaffidabile. Questa obiezione che Borger at al muove al Corman-Drosten non solo è condivisa dal Dipartimento della sanità del governo Britannico ma è addirittura presente in una guida del ministero per gli operatori sanitari Understanding cycle threshold (Ct) in SARS-CoV-2 RT-PCR A guide for health protection teams pagina 6.
5) Il test RT-PCR da solo non è in grado di dirci se un soggetto positivo al test sia anche un soggetto in grado di trasmettere l’infezione e come confermato dagli altri due studi principali Bullard et al e Jafaar et al i campioni amplificati con più di 30 cicli è impossibile che siano infettivi.
6) Nessun virus è stato possibile coltivare da campioni provenienti da sette aree di un ospedale di Londra i cui campioni sono stati amplificati con un Ct maggiore di 30.
7) In uno studio esaminato da Jefferson et al (Anderson et al) 20 campioni serologici positivi al virus provenienti da 12 pazienti diversi sono stati selezionati a caso da una banca dati di campioni di Covid-19 tra i 3 e i 20 giorni successivi all’inizio dei sintomi. Nessuno dei venti campioni prelevati è stato in grado di produrre una cultura virale.
8) La finestra della cultura virale è molto più breve di quella che riguarda l’identificazione dell’RNA del virus. Cosa significa? Significa che mentre l’RNA del virus puà essere rilevato in un campione anche dopo 40 giorni dall’inizio dei sintomi, il virus vivo e attivo, può essere rilevato in un campione non oltre gli 8 giorni dall’inizio dei sintomi.
9) Jefferson et al ha concluso che la durata media di vita dell’RNA virale in cultura è di massimo 4 giorni.
10) Cinque studi non hanno riportato alcuna crescita nei campioni con un Ct che va da maggiore di 24 fino a 35. La probabilità stimata di recupero del virus da un campione con un Ct maggiore di 35 è dell’8.3%
11) L’ultimo punto di questa lista vorrei dedicarlo ad uno studio meno conosciuto degli altri, Wolfel et al, Virological assessment of hospitalized patients with COVID-2019 il quale ci dice quanto segue: “Per comprendere l’infettività del virus abbiamo tentato l’isolamento da campioni clinici in molteplici occasioni. Mentre è stato possibile isolare il virus prontamente durante la prima settimana di sintomi, nessun isolato è stato ottenuto da campioni prelevati dopo l’ottavo giorno dall’inizio dei sintomi, nonostante la presenza di carica virale. Ho citato questo studio che non si distingue dagli altri per particolari virtù ma conferma quelli precedenti (principalmente Bullard et al) per un solo motivo: uno dei co-autori è Victor Corman, co-autore del Corman Drosten. Perciò con questo arriviamo al paradosso scientifico in cui un autore in uno studio a sostegno di una metodologia diagnostica afferma che un virus ha un alto tasso di infettività salvo affermare il contrario in un altro. Bisogna però notare che Wolfel et al è stato pubblicato sulla rivista Nature in data 1 aprile 2020 e non è da escludere il fatto che Victor Corman sia uno dei coautori possa trattarsi di un pesce d’aprile.
Al punto 3 della richiesta di ritiro del Corman Drosten, si afferma quanto segue:
“Ocorre sottolineare che nel Corman-Drosten non vi è alcuna menzione di quando un test è positivo o negativo né viene detto cosa definisce un test come positivo o negativo. Questi test diagnostici virologici devono sempre essere basati su una Procedura Operativa Standard (SOP) che comprenda un numero fisso di cicli PCR di amplificazione (soglia dei cicli o CT value) superata la quale un campione è considerato positivo o negativo.
Il numero massimo di cicli di amplificazione è 30. Oltre la soglia dei 35 cicli, avremo un numero esponenzialmente crescente di falsi positivi. Secondo Jaafar et al sopra i 35 cicli non è possibile isolare il Covid 19 e oltre i 35 cicli vengono rilevati solo virus non infettivi. Ricordiamo qui per dovere di cronaca che sia il Corman Drosten che l’OMS raccomandano per la rilevazione PCR una soglia di 45 cicli. In realtà la situazione è anche meno grave di quanto affermato da Pieter Borgen perché il team di Bullard et al aveva a disposizione 90 campioni positivi al RT-PCR SARS-CoV-2 e i test di cultura virale sui suddetti campioni hanno dimostrato che non è avvenuta alcuna crescita virale nei campioni che avevano una soglia di cicli superiore a 24 o in cui il paziente aveva iniziato ad avere i sintomi da più di otto giorni.
La conclusione di Bullard et al è che la probabilità di ottenere una cultura virale positiva raggiunge il suo picco massimo nel terzo giorno e da quel momento in poi decresce.
Non solo. Bullard et al ha anche dimostrato che l’aumento di una singola unità di amplificazione dei cicli diminuisce la possibilità di una cultura positiva del 32%. Quindi in pratica passando da 25 a 26 cicli la possibilità di riscontrare la positività al covid 19 diminuisce del 32%.
The Centre for Evidence-Based Medicine (CEBM) presso l’Università di Oxford nella pagina dedicata al monitoraggio del COVID 19 (Oxford COVID-19 Evidence Service) fa questa raccomandazione: La rilevazione attraverso PCR del virus ci da la possibilità di rilevare l’RNA in quantità minime ma se questo RNA rappresenta un virus infettivo, questo non è detto. Il che significa che il test della polimerasi può anche rilevare una traccia di RNA del virus e quindi identificare il campione come positivo ma questo virus è attivo? E’ infettivo? E’ virulento? Abbiamo visto che il test RT–PCR da solo non può rispondere a questa domanda ma i provvedimenti messi in atto dai governi che limitano la nostra libertà si basano esclusivamente su questo sistema cieco.
Il Dr. Corbett ha aggiunto: “Ci sono 10 errori cruciali nello studio Drosten sui test ma il problema principale è che nessun virus è stato isolato per sviluppare lo studio Drosten. I prodotti amplificati dal PCR non corrispondevano a nessun virus isolato all’epoca. Io la definisco “scienza del buco della zeppola”. Non c’è niente al centro dello studio. Tutto lo studio si basa sul codice genetico creato al computer e tutto questo non ha niente a che fare con la realtà o con persone reali nel caso specifico con un paziente vero”. Insomma questo test con il quale stanno determinando chi è positivo e chi no e sul quale hanno adottato misure restrittive della libertà di milioni di persone si basa sul nulla assoluto.
Celia Farber, giornalista di Uncover DC ha replicato al Dr. Corbett leggendogli alcune dichiarazioni che il virus del covid sarebbe stato isolato in diversi laboratori del mondo.
“Si sono stati pubblicati degli studi che affermano che hanno isolato il virus. Ma non è possibile fare controlli né verificare il fatto che l’abbiano veramente isolato. Il CDC ha prodotto uno studio lo scorso luglio, nel quale affermano: “ecco il virus isolato“. Sai cos’hanno fatto? Hanno tamponato UNA PERSONA. UNA. Questo tipo era stato in Cina e aveva dei sintomi. Un paziente. E hanno presunto che avesse il corona. Quindi tutta questa roba fa acqua da tutte le parti.
Quanto affermato dal Dr. Corbett riguardo il fatto che il Covid non era stato ancora isolato al momento della pubblicazione del Corman-Drosten è stato confermato ufficialmente sia dal CDC (Centers for Disease Control and Prevention) l’agenzia USA deputata al monitoraggio del Covid 19, sia dall’EDC (European Centre for Disease Prevention and Control) che è il corrispondente europeo dell’americano CDC.
Questo documento di cui vedete un’estratto, il cui titolo è CDC 2019-Novel Coronavirus (2019-nCoV) Real-Time RT-PCR Diagnostic Panel è pubblicato sul sito del CDC ed è datato 13 luglio 2020. Il testo evidenziato dice testualmente: “Since no quantified virus isolates of the 2019-nCoV are currently available…”
In quest’altro documento: Current performance of COVID-19 test methods and devices and proposed performance criteria l’EDC che è l’agenzia europea la cui mission è rafforzare le difese Europee contro le malattie infettive, l’EDC dichiara che alla data del 16 aprile 2020 “Since no virus isolates with a quantified amount of the SARS-CoV-2 are currently available…”
La traduzione della prima dichiarazione, quella del CDC è la seguente: “Dato che non è disponibile nessun isolato quantificato del virus 2019-nCoV…” e la data del documento è 13 luglio 2020.
La traduzione del documento dell’ EDC è: “Poiché non è disponibile nessun isolato del virus con una quantità data del SARS-Cov2…” e la data del documento è 16 aprile 2020
In pratica da queste due dichiarazioni delle due principali istituzioni sanitarie deputate allo studio e al monitoraggio del Covid 19, rispettivamente per il Governo USA e per la Commissione Europea, si evince chiaramente che né in Europa né negli USA il virus del Covid 19 è mai stato isolato. “Isolato” significa separato dal materiale inutile contenuto nel campione analizzato, come le cellule del paziente o eventuali batteri. Ma in entrambe queste dichiarazioni l’elemento più importante non è l’attestazione che il virus non sia ancora stato isolato ma è l’aggettivo che lo segue, cioè “quantificato”. Non è necessario avere una laurea in biologia per comprendere che se un virus non è stato quantificato, significa che non si conosce nemmeno la percentuale che quantifica il virus rispetto al resto del materiale analizzato. Se né i laboratori europei né quelli americani sono in grado di sapere in che percentuale il virus è presente nei campioni analizzati, significa che gli esaminatori del CDC e dell’EDC non sono stati in grado di distinguerlo dal resto del materiale analizzato e quindi di identificarlo.
L’elemento cruciale di questi due documenti per ciò che ci riguarda, ovvero l’inaffidabilità della metodologia diagnostica proposta da Corman Drosten, è la conferma del fatto che alla data del 16 aprile 2020 l’EDC non aveva ancora ufficialmente isolato il virus del Covid 19 mentre Eurosurveillance aveva approvato il Corman et al già da due mesi e l’OMS aveva già spedito i kit per il test nelle regioni colpite dal virus.
Per finire il Dr. Corbett insiste sul fatto che Eurosurveillance ha approvato lo studio di Drosten 24 ore dopo averglielo inviato. “Questo non accade mai. Ci vogliono mesi per esaminare uno studio e loro l’hanno fatto in 24 ore. È stato fatto passare senza essere esaminato. Perciò il test del Covid utilizzato in tutti i laboratori USA e UE non è stato sottoposto alle procedure operative standard. Quindi dovrebbe essere ritirato immediatamente. Se lo ritirano significa che l’intera macchina del test covid si distruggerà in mille pezzi e l’intero castello Covid 19 imploderà su se stesso. E’ un castello di carte costruito sulla sabbia e noi abbiamo appena smosso la sabbia sul quale poggia.”
La richiesta di ritiro del Corman-Drosten si concentra poi sul fatto che la metodologia Corman-Drosten fa troppo affidamento sull’RT-PCR.
“I medici dovrebbero riconoscere l’accuratezza delle tecnologie di diagnostica molecolare come la RT-PCR così come dovrebbero capirne i limiti. I risultati di laboratorio dovrebbero sempre essere interpretati in un contesto di presentazione clinica del paziente tenendo in considerazione la qualità e la tempistica della raccolta dei campioni” (Kurkela, Satu, and David WG Brown. Molecular-diagnostic techniques Medicine 38.10 (2009): 535-540.)
Nel luglio del 1994 la giornalista Newyorkese Celia Farber intervistava Kary Mullis nella rivista SPIN (pag. 63) Kary Mullis è stato l’INVENTORE della tecnica della reazione a catena della polimerasi per la quale nel 1993 ha ricevuto il premio Nobel per la Chimica.
Mullis ha ripetuto più e più volte che la PCR non è stata concepita per la diagnostica dei virus, tanto è vero che nell’intervista a Celia Farber ha dichiarato:“la PCR può rivelare l’HIV in persone che hanno avuto esito negativo al test HIV sugli anticorpi”
La stessa ECDC, (European Centre for Disease Prevention and Control) l’agenzia dell’Unione Europea per il controllo e la prevenzione delle malattie, ci fa due raccomandazioni:
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Che un alto valore di CT (soglia dei cicli di amplificazione dell’RNA) superiore a 35 potrebbe essere dovuto alla contaminazione da parte di reagenti e come raccomandazione generale al punto numero 7, l’ECDC dichiara espressamente che i campioni positivi al SARS Cov-2 devono SEMPRE AVERE un’altissima carica virale, il che esclude tutti i cosiddetti “asintomatici” dalla categoria di soggetti che possono trasmettere l’infezione.
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Nonostante i risultati positivi possono essere indicativi riguardo la presenza dell’RNA del Covid nel paziente, una correlazione clinica con la storia del paziente ed altre informazioni diagnostiche sono indispensabili per determinare lo stato infettivo del soggetto.
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Il fatto che il Corman-Drosten sia inaffidabile, è chiaramente espresso nella guida del governo inglese Understanding cycle threshold (Ct) in SARS-CoV-2 RT-PCR A guide for health protection teams pubblicato nll’ottobre 2020 a pagina 6 dice chiaramente:; Il test RT-PCR rileva la presenza di materiale genetico virale in un campione ma non è in grado di distinguere se il virus infettivo è presente oppure no. La quantità di virus intatto nei tamponi eseguiti nella parte superiore dell’apparato respiratorio sono influenzati da fattori endogeni ed esogeni ai metodi di laboratorio.
Secondo l’ICSLS nella letteratura dei test RT-PCR è risaputo che ci sono molti rischi come i falsi positivi funzionali, che possono condurre alla misinterpretazione dei risultati del test. Per questa ragione è raccomandato ad esempio da Kurkela et al1 che il PCR sia usato sempre in tandem con una diagnosi clinica dell’infezione basata sui sintomi. Ci sono evenienze documentate di misinterpretazione che hanno creato pandemie fantasma come quella del 2004-2006 in cui una malattia respiratoria è stata per errore scambiata per un’epidemia di pertosse grazie al test PCR.
Per riassumere, i buchi fatali del test PCR Corman Drosten sono questi:
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Non è un test specifico, dovuto ad un’erronea strutturazione del primer
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produce risultati variabili per non dire arbitrari
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Non riesce a distinguere tra il virus integro e i frammenti di questo
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Non riesce a distinguere il positivo dal negativo
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Non ha una procedura operativa standard
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Non è stato peer-reviewed
Dopo la lettera di ritiro inviata da Pieter Borger e dagli altri 21 scienziati, Eurosurveillance ha pubblicato questa nota:
Abbiamo recentemente ricevuto della corrispondenza riguardante uno studio pubblicato quest’anno che mette in discussione il contenuto e le procedure editoriali usate per valutare l’articolo precedenti la pubblicazione. Possiamo assicurare i nostri lettori e i nostri autori che prendiamo seriamente i commenti relativi ai contenuti scientifici, l’esame degli articoli e la trasparenza editoriale.Tutti gli articoli pubblicati dalla rivista sono peer-reviewed da almeno due esperti indipendenti del settore (o da almeno uno in caso di comunicazioni veloci). L’articolo in questione è stato anche peer-reviewed da due esperti sulle cui raccomandazioni è stata basata la decisione di pubblicarlo. Eurosurveillance sta cercando consigli di esperti al fine di discutere la suddetta corrispondenza nel dettaglio. Valuteremo secondo le nostre procedure esistenti, le richieste e prenderemo una decisione non appena avremo indagato a fondo. Nel frattempo sarebbe inappropriato per tutte le parti coinvolte di commentare o discutere ulteriormente l’argomento finché non avremo esaminato tutte le questioni.
Secondo Peter Andrews “tutti i test PCR basati sul Corman-Drosten dovrebbero essere fermati con effetto immediato e tutti quelli che vengono definiti dai media come “casi” la cui diagnosi è stata fatta seguendo il Corman Drosten, non dovrebbero effettuare alcuna quarantena. Inoltre tutti i decessi Covid presenti e passati e i tassi di infettività dovrebbero essere soggetti ad un inchiesta retroattiva mentre tutti i lockdowns, le chiusure e le altre restrizioni dovrebbero essere urgentemente riviste ed allentate.
Esistono 78 tipologie di tamponi, alcune delle quali importate dalla Cina; nessuna di queste è mai stata controllata o ispezionata né convalidata ed è la Commissione europea ad affermarlo nel Working Document del 16 aprile scorso. (Titolo del documento: Current performance of COVID-19 test methods and devicesand proposed performance criteria) il Centre for Evidence-Based Medicine (CEBM) presso presso l’Università di Oxford è un centro di divulgazione di evidenze scientifiche il cui direttore ricordiamo è Carl Henegan co-autore di Jefferson et al, lo studio più importante finora realizzato sul Covid 19.
Da quando è iniziata l’emergenza del Covid 19 il centro aggiorna continuamente questa pagina del loro sito che si chiama Covid 19 Evidence Service.
Il CEBM ha sempre pubblicato aggiornamenti che erano estratti dagli studi che abbiamo finora menzionato: Jefferson et al, Bullard et al, Jafaar et al, Young et al etc. Il che significa che la scienza ufficiale britannica ha sempre conosciuto la vera portata di questa epidemia ed ha sempre pubblicato i risultati degli studi e bisogna riconoscere che questo merito va attribuito all’Università di Oxford, senza la quale oggi non sapremmo niente di questo virus ma affogheremmo totalmente nel panico creato dai nostri governi. Purtroppo per i nostri governanti l’Università di Oxford esiste e lavora e a breve, nel momento in cui le pubblicazioni menzionate in quest’articolo riusciranno ad entrare nel circuito dei media mainstream i governi dovranno iniziare a tenerne conto.
Questo avviso che vedete sopra e che trovate qui è pubblicato sul sito www.uk.gov e dice testualmente:
Dal giorno 19 marzo 2020 nel Regno Unito, il COVID-19 non è più considerata una malattia infettiva con gravi conseguenze.
Nel gennaio 2020 Il sistema sanitario HCID (High Consequences Infectious Diseases) delle 4 nazioni (Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del nord) aveva rivolto una raccomandazione ad interim per classificare il COVID-19 come una malattia infettiva con gravi conseguenze. Questa classificazione è stata basata considerando i criteri del protocollo HCID riguardo il virus e sulle informazioni disponibili durante i primi stadi dell’epidemia. Adesso che si conosce di più riguardo il COVID 19, le istituzioni sanitarie nel Regno Unito hanno esaminato le conoscenze aggiornate sul COVID 19 che contraddicevano i criteri HCID.
Le istituzioni sanitarie britanniche hanno stabilito che molte caratteristiche sono adesso mutate; in particolare sono disponibili più informazioni riguardo il tasso di mortalità (che è generalmente basso) che adesso c’è una maggiore consapevolezza clinica e un test di laboratorio specifico e sensibile, la disponibilità del quale continua ad aumentare.
La Commissione di controllo sui patogeni pericolosi (ACDP) è quindi dell’opinione che il COVID 19 non debba più essere classificata come una malattia infettiva con gravi conseguenze.
Riguardo questa dichiarazione del governo inglese che trovate qui, la pagina in questione non è raggiungibile direttamente dalla pagina del sito www.uk.gov dedicata al Covid.
Perlomeno il sottoscritto non è riuscito a trovare alcun link diretto dalla pagina principale di monitoraggio del Covid. Se il governo inglese volesse indicarci da quale link della pagina principale si raggiunge questa pagina, lo apprezzeremmo molto. Tuttavia la pagina esiste e questa è la dichiarazione ufficiale del governo Britannico riguardo il COVID 19: e cioè che non si tratta di una malattia che ha gravi conseguenze.
Come potete leggere voi stessi, la classificazione del Covid 19 come malattia non grave da parte del governo inglese risale al marzo del 2020 ed è la posizione raccomandata al governo britannico da parte dell’Advisory Committee on Dangerous Pathogens, la commissione di controllo sui patogeni pericolosi. Tale posizione è documentata ufficialmente da una lettera inviata dal presidente della commissione il Prof. Tom Evans al Ministero della Sanità Britannico. Come potete constatare voi stessi dalla lettera, la Commissione si è espressa all’unanimità su questa classificazione del Covid 19:
Tutto questo ci aiuta a capire il motivo delle dichiarazioni del primo ministro britannico Boris Johnson e del ministro degli esteri Dominic Raab. In pratica Johnson e Raab hanno sentito la necessità di tutelarsi dal punto di vista legale, perché con le loro dichiarazioni possono affermare di avere informato il pubblico inglese riguardo l’inaffidabilità della diagnostica Covid.
Il problema è che nonostante il parere della Commissione sui patogeni pericolosi che è un ente governativo e nonostante le conoscenze scientifiche divulgate dall’Università di Oxford, il governo inglese e gli altri governi continuano ad implementare misure restrittive che sono in totale contraddizione con quanto dichiarato dalle maggiori istituzioni scientifiche del pianeta.
C’è da dire che anche nel sito del CDC, l’agenzia governativa USA per il controllo delle malattie vengono citati sia Bullard et al sia Young et al e in generale viene riconosciuta la non infettività del Covid 19 superati i dieci giorni dall’inizio dei sintomi ma nonostante questo le istituzioni governative implementano misure restrittive della libertà di movimento, obbligano le persone a indossare le mascherine come se vivessero in un’altra realtà.
La domanda è fino a quando i governi potranno ignorare le istituzioni medico scientifiche?
Il 13 gennaio 2021 l’Organizzazione Mondiale della sanità ha emesso questo comunicato destinato agli operatori dei laboratori analisi che utilizzano la diagnostica Corman-Drosten. Nella nota si legge che l’OMS richiede agli utilizzatori che vogliono interpretare i risultati dei campioni eseguiti con la PCR di seguire le istruzioni per l’uso allegate alle apparecchiature dignostiche per gli esami in vitro (reagenti, materiale di controllo, contenitori dei campioni, software etc.)
“Users of RT-PCR reagents should read the IFU [Information for Use] carefully to determine if manual adjustment of the PCR positivity threshold is necessary to account for any background noise which may lead to a specimen with a high cycle threshold (Ct) value result being interpreted as a positive result.”
In pratica l’OMS in questo paragrafo dichiara che l’utilizzo di troppi cicli, cioè di una soglia di cicli alta può produrre come risultato dei falsi positivi.
“In some cases, the IFU will state that the cut-off should be manually adjusted to ensure that specimens with high Ct values are not incorrectly assigned SARS-CoV-2 detected due to background noise.”
LE CONSEGUENZE POLITICHE DELL’INIZIATIVA DI Borger et al
A livello europeo il primo provvedimento amministrativo emesso da un tribunale che tiene conto degli studi menzionati in questo articolo è una decisione della Corte d’Appello di Lisbona che ha messo fine ad un provvedimento di quarantena adottato dal dipartimento sanitario regionale delle Azzorre nei confronti di quattro cittadini tedeschi. Secondo la Corte “il test RT PCR è inadatto a stabilire oltre ogni ragionevole dubbio che un risultato positivo corrisponda nei fatti all’infezione da Covid-19.” Gli studi citati dalla corte a sostegno di questa decisione sono Jafaar et al e uno studio pubblicato sul Lancet False-positive COVID-19 results: hidden problems and costs.
Il secondo caso è del Tribunale Amministrativo di Vienna che il 24 marzo 2021 con la sentenza VGW-103/048/3227 / 2021-2 ha sancito l’inaffidabilità del test RT-PCR come metodologia diagnostica idonea alla rilevazione del virus SARS-CoV-2, impedendo così al governo austriaco di adottare misure restrittive. Questa decisione è stata presa sulla base oltre che dello studio Bullard et al sopracitato anche sulla base della circolare OMS del 21 gennaio 2021: WHO Information Notice for IVD Users 2020/05 – Nucleic acid testing (NAT) technologies that use polymerase chain reaction (PCR) for detection of SARS-CoV-2
Ad ogni modo, il Corman-Drosten su cui si basa la diagnostica del covid e tutti i dati prodotti e diffusi dai governi e dai media di tutto il mondo, è praticamente imploso su se stesso e in ambito scientifico ha ormai perduto qualunque credibilità. Adesso la palla è in mano a coloro che devono far arrivare questa informazione al pubblico, cioè editori e giornalisti.
L’obiettivo di questo articolo era quello di spiegare per sommi capi e quanto più nel dettaglio possibile in una pubblicazione non scientifica la fallacità della metodologia diagnostica Corman Drosten.
Tuttavia non è possibile non notare una discrepanza abissale tra la consapevolezza scientifica riguardo la non esistenza di un nuovo virus e di conseguenza lo scarso potenziale infettivo del Covid 19, in quanto trattasi di un coronavirus in circolazione da quasi vent’anni e le misure restrittive messe in atto dai governi. Non si può non concludere che le misure restrittive messe in atto per la diffusione del covid 19 non hanno alcuna base medico-scientifica e quindi dovrebbero cessare immediatamente oppure i governi che le implementano hanno il dovere di inventarsi un altro motivo plausibile e comunicarcelo.
Gianluca D’Agostino
Gianluca D’Agostino ha lavorato per CNN a Washington DC e per Associated Press a Roma e Tirana. Ha intervistato Larry King e chiesto al presidente di Microsoft Bill Gates del suo problema con l’Antitrust USA. D’Agostino ha un dottorato di ricerca in Teoria dell’Informazione e della Comunicazione presso l’Università di Macerata, è stato Visiting Scholar presso il Media and Communication Department della Fordham University presso il Film Studies Program dell’University of California Berkeley e Ricercatore presso il Center for the Study of the Novel, Dipartimento di Inglese dell’Università di Stanford. I suoi libri sono presenti nelle biblioteche delle università di Bologna, Venezia, Roma, Francoforte, NYU, Princeton, Yale.
https://catalog.princeton.edu/catalog/5715237
1Kurkela, Satu, and David WG Brown. “Molecular-diagnostic techniques.” Medicine 38.10. (2009): 535-540.